Alle nostre latitudini il neomedico durante la cerimonia di laurea pronuncia il giuramento di Ippocrate, impegnandosi, con le parole del grande maestro greco, a esercitare onorevolmente la professione e a trasmettere il proprio sapere a chi se ne mostrerà degno.
L’importanza del giusto comportamento del terapeuta, invitato a coltivare, oltre alla conoscenza e alla moralità, anche la gentilezza, la compassione e un’affettuosa attenzione nei riguardi del malato, raggiunge in Tibet il massimo livello.
Il primo presupposto per il successo della terapia, sempre rivolta all’uomo nella sua totalità di materia, energia e spirito, è una buona intesa vibrazionale, una sottile sintonia tra medico e paziente.
La malattia, frutto dello squilibrio all’interno di se stessi e nei confronti del mondo circostante, è una realtà da capire, prima ancora che da guarire. Solo comprendendo a fondo le condizioni che l’hanno resa possibile, le vere cause della propria disarmonia, il paziente, aiutato ovviamente dal medico, può intervenire su se stesso e porre fine a uno stato di confusione o di errore.
In Occidente, il malato ha, in un certo senso, un ruolo passivo: si fa visitare dal medico, gli racconta i suoi guai, acquista le sue brave pillole in farmacia, ne inghiotte coscienziosamente un certo numero ogni giorno, secondo la prescrizione. E basta.
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